Recentemente la Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro, si è espressa con durezza sulle responsabilità attribuibili ai datori per i casi di stress da lavoro. Infatti, la sentenza del gennaio 2024 ha deciso che il datore di lavoro deve rispondere dei danni alla salute del dipendente causati da un ambiente lavorativo stressante, anche se tali atti che hanno provocato la lesione non sono definibili come mobbing. Dunque, per la cassazione la tutela della salute dei dipendenti di un’azienda non include solo la prevenzione del mobbing, ma si dovrebbe estendere a tutte le situazioni di stress. Andiamo allora ad analizzare nel dettaglio il caso in questione.
Il caso portato in Cassazione
Il caso presentato all’attenzione della Cassazione riguarda una controversia tra un lavoratore che aveva citato in giudizio il datore di lavoro per avere un risarcimento per le sofferenze psichiche subite in ufficio. La richiesta era stata inizialmente accolta in primo grado, salvo poi essere rigettata in Corte d’Appello poiché non sono stati evidenziati nei comportamenti del datore il “comune intento persecutorio” che di solito costituisce l’elemento basilare del mobbing.
Secondo la Corte d’Appello, tali atti potevano essere ritenuti al massimo come carenze organizzative e gestionali, ma di fondo mancava l’intento persecutorio affinché si potesse parlare di mobbing. Per contrastare questa pronuncia, il lavoratore ha poi presentato ricorso alla Cassazione.
La decisione della Cassazione
Esaminando il caso in questione, la Suprema Corte ha per prima cosa sottolineato il sussistere dell’obbligo del datore di esimersi dal compiere atti o scelte lesive della personalità morale del dipendente, tra cui condizioni di lavoro stressanti, oltre che comportamenti ancor più lesivi come il mobbing, lo stalking, il burn out e così via.
Secondo le norme sugli obblighi risarcitori legati alla responsabilità contrattuale, si può configurare la responsabilità del datore anche nei casi di semplice inadempimento che abbiano nesso causale con un danno alla salute del lavoratore.
Per la Cassazione la Corte territoriale di competenza doveva considerare le diverse condotte singolarmente, in violazione dell’articolo 2087 del Codice Civile, anche in assenza di intenzione persecutoria.
Questa circostanza era stata trascurata nella sentenza impugnata. Quindi la motivazione della Corte d’Appello era contraddittoria poiché, se da un lato viene riscontrato il disturbo del lavoratore, causato dallo stress lavorativo, dall’altro lato non ha tenuto conto della domanda dello stesso riconducibile alla violazione dell’articolo 2087.
È risaputo che il dipendente che vuole ottenere il risarcimento per i danni provocati nel corso dell’attività di lavoro non deve provare le omissioni del datore nel predisporre le misure di sicurezza, ma dovrà essere proprio il datore a dimostrare di avere intrapreso tutte le tutele del caso per evitare il danno causato.
Ciò significa che, una volta assicurato il danno e la nocività del luogo di lavoro, il diritto ad essere risarciti non è eludibile. Secondo la Cassazione il giudice in Appello non ha considerato le condotte assunte dal datore di lavoro che possono essere state incongrue rispetto alla comune gestione del rapporto e poste in violazione dell’articolo 2087.
Riassumendo, per attribuire una responsabilità del datore non è necessaria la presenza di un comportamento vessatorio, ma è sufficiente l’assunzione di comportamenti che possano danneggiare la personalità del dipendente, come appunto il tollerare situazioni stressogene.
Con la sentenza 2084/2024 del 19 gennaio scorso, la Suprema Corte ha smentito la pronuncia precedente ed ha rinviato nuovamente alla Corte d’Appello che dovrà svolgere un nuovo esame e sostenere le spese del giudizio di legittimità.