La Corte Costituzionale con la sentenza n. 148 del luglio 2024 ha affermato l’illegittimità costituzionale degli articoli 230 bis e 230 ter del Codice Civile che rispettivamente disciplinano il tema dell’impresa familiare per includere i diritti del convivente di fatto che svolge la propria attività di lavoro nella stessa impresa a conduzione familiare.
Il caso portato all’attenzione della Corte Costituzionale
Il problema di legittimità costituzionale è stato avanzato dalla Corte di Cassazione, davanti alla quale era stato avanzato ricorso dalla convivente di fatto di un uomo defunto a cui era legata da rapporto affettivo. La medesima persona aveva agito nei confronti dei figli ed eredi dell’uomo per ricevere la liquidazione della quota di partecipazione all’impresa familiare che riguardava un’azienda agricola, per il periodo nel quale aveva prestato lavoro nella stessa.
È bene ricordare che, secondo l’articolo 1, comma 36 della legge sulle unioni civili, l’espressione “conviventi di fatto” indica “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”. Il Tribunale competente aveva rigettato l’istanza, sostenendo che il convivente di fatto non aveva il diritto di essere definito familiare, ai sensi dell’articolo 230 bis, comma 3 del Codice Civile. Alla stessa conclusione era giunta anche la Corte d’Appello.
La ricorrente ha quindi presentato ricorso alla Corte di Cassazione, la quale ha sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale delle leggi in materia di impresa familiare per violazione degli articoli 2, 3, 35 e 36 della Costituzione, poiché tali norme non identificano i conviventi more uxorio come familiari.
La Corte Costituzionale a favore del convivente di fatto: i motivi della sentenza
La Corte di Cassazione ha considerato fondata la richiesta ed ha accolto la questione posta alla sua attenzione. Nello specifico, secondo il giudice non è possibile non tenere conto degli evidenti cambiamenti che hanno caratterizzato la società di oggi, così come l’evoluzione della giurisprudenza a livello italiano ed europeo.
Infatti, la famiglia di fatto oggi deve poter godere di piena dignità. Fermo restando le differenze rispetto alla famiglia tradizionale, cioè basata sul matrimonio, la Consulta sostiene che, qualora si tratti di diritti fondamentali del cittadino, questi debbano essere assicurati nei confronti di tutti, senza alcuna distinzione.
Nello specifico, tra i diritti basilari da garantire ci sono il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione, a cui fanno riferimento gli articoli 4 e 36 della Costituzione. Data la loro rilevanza, questi devono essere difesi anche per quanto riguarda l’impresa familiare.
Secondo la Corte Costituzionale anche la prestazione di lavoro del convivente di fatto deve essere tutelata per impedire che questa possa essere identificata come prestazione a titolo gratuito. Per sostenere tale tesi la Consulta sottolinea l’importanza della tutela del lavoro che rappresenta un mezzo per difendere l’articolo 2 della Costituzione che afferma l’impegno della Repubblica italiana nell’assicurare i diritti fondamentali del cittadino.
Essendo la famiglia una delle più importanti componenti della società, la Corte ha ritenuto irragionevole l’esclusione del convivente di fatto dall’impresa di famiglia. Dunque, ha sancito l’illegittimità costituzione dell’articolo 230-bis, comma 3, in quanto non considera come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella nella quale lavora.
Al contempo è stato dichiarato illegittimo anche l’articolo 230-ter. La normativa introdotta nel 2016 con la Legge Cirinnà stabiliva una tutela minore per il convivente di fatto, non riconoscendogli il diritto al mantenimento e al lavoro nella famiglia, così come i diritti partecipativi nel gestire l’azienda di famiglia.
La Corte Costituzionale ha quindi citato la normativa sull’impresa familiare che è diversa da quella dell’impresa coniugale. Quest’ultima è riferita essenzialmente alla comunione dei beni, mentre l’impresa familiare dovrebbe proteggere il lavoro svolto dai familiari, diventando una via di mezzo tra il lavoro retribuito e quello gratuito per affetto o benevolenza.
I giudici hanno stabilito che il lavoratore nell’impresa familiare ha difficoltà nel dimostrare un legame di subordinazione in tale realtà e ciò porta a ritenere il lavoro come appunto gratuito e non protetto a sufficienza.
L’articolo 230-bis è stato definito con lo scopo di dare tutela a questa categoria di lavoro, normativa poi ampliata nel 2016 con l’aggiunta dei soggetti in unione civile. La Corte ha affermato che anche il convivente di fatto è in una situazione analoga, lì dove l’affectio maritalis limita la subordinazione al potere dell’imprenditore, componente chiave del lavoro subordinato.
Ecco allora che la protezione del lavoro del convivente risulta inefficace, così come quella del lavoro familiare prestato da chi ha un vincolo di matrimonio, parentela o affinità con il datore. Il legislatore ha cercato di affrontare il problema, ma soltanto in forma parziale e discriminatoria, dato che con l’introduzione delle unioni civili, ha avvallato una partecipazione limitata del convivente di fatto all’impresa familiare.