Guida al reato di mobbing

Negli ultimi anni si sente spesso parlare di mobbing, soprattutto in ambito lavorativo. Con questa espressione di intendono quei comportamenti persecutori e ostili messi in atto verso un dipendente sul luogo di lavoro con l’obiettivo di emarginarlo o di togliergli le funzioni svolte per quanto riguarda l’organizzazione lavorativa. Anche se non esiste una vera e propria legge ad hoc per questo fenomeno pericoloso, ci sono comunque strumenti di tutela per proteggersi.

Cos’è il mobbing?

Il termine mobbing proviene dal verbo inglese “to mob” che significa “aggredire” e da anni è entrato ormai nel nostro lessico quotidiano e non soltanto giuridico. La parola si utilizza per indicare una serie di comportamenti aggressivi e vessatori a danno di un dipendente sul posto di lavoro per colpire la vittima ed isolarla.

Fenomeno studiato anche in ambito psicologico e sociologico, nel tempo l’argomento ha trovato rilevanza anche nelle aule di tribunale. In mancanza di una speciale normativa, la giurisprudenza ha definito il mobbing come l’insieme di azioni persecutori protratte nel tempo verso un lavoratore da parte di altri colleghi o da parte del datore di lavoro, caratterizzate da uno scopo di emarginazione per escludere la vittima dal gruppo di lavoro.

Tra i comportamenti riconducibili al mobbing ci sono lo spostamento in una sede lavorativa scomoda, l’esclusione da progetti e riunioni aziendali, l’essere bersaglio di pettegolezzi, insulti e battute, la sottrazione di mansioni, l’assegnazione di mansioni inferiori, l’aumento di carichi di lavoro, assillanti forme di controllo, aggressioni fisiche o sessuali.

Tra queste condotte riconducibili alla definizione di mobbing ci sono comportamenti illeciti, ma anche azioni che risultano lecite e che sono conseguenza dei poteri di controllo e disciplina tipici del datore di lavoro. Ad accomunare tali atti è l’intento vessatorio del persecutore ed il carattere ripetitivo dell’azione che viene perpetrata nel tempo.

A seconda dei soggetti coinvolti e al ruolo nella scala gerarchica dell’azienda si possono individuare varie tipologie di mobbing:

Mobbing verticale: si verifica quando la condotta vessatoria riguarda soggetti posti a diversi livelli gerarchici. In questo caso bisogna distingue ulteriormente tra mobbing discendente, quando gli atti vessatori provengono dal datore o superiore della vittima, e mobbing ascendente, quando invece il mobbing è attuato da un sottoposto verso un soggetto sovraordinato;
Mobbing orizzontale: avviene quanto la condotta persecutoria è attuata da uno o più colleghi dello stesso livello gerarchico della vittima.

Gli elementi costitutivi del mobbing

Secondo quanto sancito dalla giurisprudenza, gli elementi costitutivi del mobbing sono i seguenti:

• Azioni di carattere persecutorio, leciti o illeciti singolarmente, che sono messi in atto contro la vittima in forma sistematica e prolungata nel tempo da parte del datore o da parte di altri dipendenti;
• Episodio lesivo della personalità, dignità o salute del dipendente;
• Nesso di causalità tra le condotte illecite e il pregiudizio patito dalla vittima nella propria dignità o integrità psico-fisica;
• Intento persecutorio che unisce tra loro tutti i vari comportamenti vessatori.

La normativa italiana di riferimento

Nel nostro ordinamento non c’è una disciplina particolare dedicata al problema del mobbing. In ogni caso, ci sono delle norme che permettono di dare rilievo alle azioni vessatorie in precedenza descritte. Per quanto riguarda la legge ordinaria possiamo citare i seguenti articoli del Codice Civile:

Articolo 2087: obbliga il datore di lavoro ad applicare tutte le misure necessarie per proteggere l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti;
Articolo 2103: disciplina la prestazione lavorativa del dipendente, definendo le ipotesi e i modi con i quali può procedersi ad un cambiamento delle mansioni originariamente assegnate;
Articoli 1175 e 1375: tali articoli stabiliscono che le parti coinvolte in ogni rapporto contrattuale agiscano comportandosi tra loro con buona fede e correttezza;
Articolo 2043: definisce il principio del neminem laedere, secondo cui qualsiasi atto colposo o doloso che arreca ad altri un danno, obbliga chi commette il reato a risarcire il danno;
Articolo 2049: il datore di lavoro risponde dei danni causati dall’atto illecito commesso dal dipendente durante l’attività lavorativa.

Risarcimento danni e responsabilità contrattuale

Il dipendente vittima di mobbing ha diritto di richiedere il risarcimento dei danni subiti. Per ottenere tale risarcimento ci sono diverse modalità, secondo la responsabilità che il lavoratore vuole far valere in giudizio. Infatti, le condotte imputabili di mobbing possono delineare tipi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, con le varie differenze di disciplina che ne conseguono.

Si parla di responsabilità contrattuale quando la persona danneggiata segnala l’inadempimento di un obbligo preesistente. Per quanto riguarda il mobbing ad essere inadempiuto è l’articolo 2087 c.c. che impone al datore l’adozione delle misure utili per difendere l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti.

È quindi inadempiente sia il datore di lavoro che si macchia di mobbing in prima persona, sia quello che non ha vigilato o represso eventuali atti mobbizzanti messi in atto dai suoi sottoposti verso la vittima.
Uno degli aspetti positivi per chi sceglie di intraprendere un’azione di responsabilità contrattuale è quello di non dover provare l’atteggiamento psicologico di chi ha causato il danno.

Questo perché in campo contrattuale l’ordinamento presuppone la colpa della parte inadempiente e dunque sarà quest’ultima a dover dimostrare che l’inadempimento è accaduto per ragioni a lei non imputabili. Infine, è bene ricordare che l’azione di responsabilità contrattuale prevede un termine di prescrizione di 10 anni.